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Ancora niente retribuzione per gli specializzandi di area sanitaria, la protesta e lo stallo della politica

Il disegno di legge è stato depositato un anno fa, ma per il momento è lettera morta. Grandi speranze per ora non se ne vedono per il testo che chiede di sanare la discriminazione che subiscono gli specializzandi di area sanitaria, che pur prestando servizio full time negli ospedali pubblici non percepiscono – a differenza dei medici – nessuna retribuzione. Lo conferma alla Repubblica degli Stagisti Andrea Crisanti, virologo e senatore del Pd, nonché primo firmatario del disegno di legge: «Dobbiamo lavorare in Commissione istruzione e ricerca affinché il finanziamento arrivi nella prossima legge di Bilancio». L’accordo politico in teoria ci sarebbe pure, prosegue, «ma i tentativi di inserire la riforma per ora sono andati a vuoto. Ci avevamo provato anche con il Milleproroghe, ma nulla». Lo scoglio sono i costi, pur contenuti rispetto agli introiti dello Stato. «Sono circa 800 milioni» spiega Crisanti. Gli specializzandi a cui andrebbe diretta la misura si aggirano sui 5mila e 500 tra farmacisti, biologi, psicologi: quindi «35mila euro per ognuno all’anno, da moltiplicare per gli anni del percorso di specializzazione, che nel caso dei farmacisti sono quattro, diventando quindi 140mila circa».A complicare ulteriormente la situazione, il caso degli psicologi. «Lì c’è una zona grigia, un po’ un sottobosco per quanto riguarda le scuole di specializzazione». Perché «sono spesso private, anche se accreditate». E anche questa «è una questione da risolvere» dice Crisanti. Si è anche tentato un altro escamotage, cioè «quello di destinare agli specializzandi non medici le borse stanziate per i bandi di specializzazione in medicina andati deserti negli ultimi anni». Ma neppure questa proposta ha avuto seguito. «Adesso torneremo alla carica per cercare di calendarizzare la proposta» assicura. Le categorie a cui si rivolge il disegno di legge sono tre: farmacisti, biologi e psicologi. E le associazioni studentesche che li rappresentano – rispettivamente ReNaSFO, ABIFB e L.A.psi. – sono sul piede di guerra, tanto che hanno annunciato per il prossimo 23 marzo una manifestazione in centro a Roma, a piazza Santi Apostoli. La disparità è palese, sottolinea con la RdS Seydou Sanogo, 31enne farmacista ospedaliero a Lecce e rappresentante ReNaSFO [il terzo da sinistra nella foto qui accanto]: «Un medico specializzando percepisce una borsa di studio che inizialmente è di circa 1.500 euro, per poi salire fino a circa 1.700 negli anni successivi». Un 'privilegio' da cui sono invece esclusi tutti gli altri, pur lavorando a tempo pieno negli ospedali. Per di più, sottolinea Sanogo, «dobbiamo versare 4.500 euro alle casse previdenziali dell’Enpam, e pagare le tasse della scuola, pari a circa 2.500 euro». Va chiarito poi che le scuole non sono facoltative, e lo ribadisce lo stesso disegno di legge. «ll possesso di un titolo di specializzazione è diventato requisito necessario per l'accesso alla dirigenza sanitaria del Servizio sanitario nazionale» specifica il ddl, «sia per i dirigenti di area medica sia per quelli di area non medica». Non si tratta quindi di un rimborso spese per un tirocinio: «quello si svolge prima dell’abilitazione» conferma Sanogo. In questo caso «parliamo di soggetti abilitati, che lavorano a tutti gli effetti». E che per partecipare a un concorso pubblico e essere assunti in ospedale devono passare per il percorso di specializzazione. Sono addetti nell'ambito delle attività formative di tipo pratico «a mansioni di tipo operativo, ad esempio nei laboratori» aggiunge il testo del ddl. Svolgendo mansioni di primaria importanza. Nel caso degli specializzandi farmacisti ospedalieri, ad esempio – 700 attualmente in Italia – «nel corso delle 6mila ore di formazione le attività riguardano l’analisi dell’appropriatezza prescrittiva dei farmaci, il corretto impiego dei dispositivi medici e la loro gestione logistica sulla base del rapporto costo efficacia» spiega un comunicato ReNaSFO. Non solo, ma gli specializzandi hanno la responsabilità anche relativa a «analisi farmaco-economiche e allestimento di terapie oncologiche e nutrizionali enterali e parenterali». Il risultato è che le scuole di specializzazione diventano elitarie. Sono «accessibili solo alle famiglie che possono permettersi di mantenere i figli che si stanno formando fino ai trent'anni di età» avverte Sanogo. Gli articoli costituzionali violati diventano almeno tre, denunciano le associazioni: «Non solo l'articolo 3 (il diritto all’uguaglianza, ndr), ma anche il 34» come sottolinea perfino il ddl. Quello «che garantisce l'accesso ai gradi più alti degli studi ai capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi». E infine l’articolo 36 della Costituzione, «che prevede che il lavoro debba essere sempre retribuito in modo tale da assicurare al lavoratore e alla sua famiglia una esistenza libera e dignitosa». Ilaria Mariotti

Orientamento sui social, ogni settimana EY racconta ai giovani chi è e cosa fa “il consulente”

Anche quest’anno torna EY4NextGeneration, il programma di orientamento professionale e volontariato di competenza offerto gratuitamente ai giovani che stanno entrando nel mondo del lavoro, per far scoprire chi è e che cosa fa un consulente. Appuntamenti a cadenza settimanale in diretta su Instagram, fino a fine luglio, con interviste a professionisti EY e ospiti speciali che raccontano quel che c’è dietro la parola “consulenza”. Ogni live è anche occasione per fare domande in diretta e ricevere subito una risposta. Prossime live: mercoledì 20 marzo “Come funziona lo stage in EY” e mercoledì 27 marzo "Intelligenza artificiale al lavoro", in entrambi i casi alle 18.«Siamo partiti quattro anni fa con una serie di live in cui i professionisti EY discutevano i temi più disparati dell’orientamento e del mondo della consulenza, e rispondevano alle domande che chi seguiva le live poteva porre», racconta Eleonora Torre, Employer Branding and Employee Experience in EY: «In abbinamento alle dirette c’erano anche dei programmi di mentoring, un link diretto con il team recruiting di EY: l’obiettivo primario era ed è tutt’ora instaurare un dialogo con i follower dell’account, quindi ragazzi, studenti che seguono e si approcciano per la prima volta al mondo della consulenza e hanno così l’opportunità di avere risposte a curiosità che in fase di colloquio probabilmente non chiederebbero mai».Il programma ha una finalità di orientamento per le nuove generazioni, come ad esempio l’approccio a uno stage o i chiarimenti su cosa faccia un consulente. «Su questo abbiamo sviluppato il concept dell’iniziativa. Negli anni, però, ci siamo resi conto che se il primo obiettivo era quello di trasferire conoscenza sul mondo del lavoro in generale, quello della consulenza rimaneva sui generis, di difficile approccio per chi non è al suo interno. Così abbiamo cercato di settorializzarci e rispondere alla domanda che tutti fanno: “Che cosa fa un consulente?”», racconta Torre. La risposta sta nelle storie personali e le esperienze dei professionisti di EY, veri protagonisti del programma. «I social oggi sono pieni di orientamento sul mondo del lavoro: noi abbiamo capito che farne uno settoriale era quel passetto in più che poteva aiutare. Di solito si immagina il consulente in giacca e cravatta, impettito, distante: EY4NextGeneration vuole rompere lo stereotipo, avvicinare, instaurare un dialogo».I feedback ricevuti da parte di giovani e professionisti nelle passate tre edizioni sono stati incoraggianti. «Per due motivi: il primo perché siamo la prima Big Four (ndr. le quattro società di consulenza e revisione che si dividono il mercato mondiale, ovvero EY, PwC, Deloitte, KPMG) che si approccia a questo nuovo modo di raccontarsi alle nuove generazioni di talenti. È piaciuto il modo in cui si cerca di instaurare un dialogo, a prescindere dall’occasione del colloquio o del rapporto di lavoro già esistente. E poi c’è l’utilità per gli studenti, lo stupore quasi nel poter sentire l’apertura dei professionisti rispetto alle loro storie», racconta Eleonora Torre. Quest’anno si è voluto poi dare più attenzione alle storie personali e ispirazionali: «Sento una storia, mi interesso e ho un modello di riferimento. Poi noi creiamo una serie di follow up, quindi se ci sono domande una diretta a volte consente di sbloccare il coraggio per scrivere un messaggio su Linkedin».Una differenza rispetto alle edizioni passate è proprio l’intervista live. In passato erano tutti collegati da casa, «quest’anno abbiamo cercato un modo per comunicare un’apertura e portare il programma dentro l’azienda. Perciò le live avvengono dalla sede di Milano e di Roma». Gli appuntamenti si dividono in incontri con finalità di orientamento e live con protagonisti i professionisti interni. «In una live di dicembre ci siamo occupati di Storytelling e colloquio, parlando con una nostra recruiter: un tema di interesse generale grazie al quale abbiamo instaurato delle interazioni con chi seguiva la diretta e ha voluto fare delle domande. Per esempio, mi ha colpito che qualcuno abbia chiesto se era corretto stringere la mano a un colloquio in presenza: non dimentichiamoci che il programma ha vissuto anche l’evoluzione del lavoro durante il periodo Covid. Oppure spieghiamo cosa fa un auditor oggi: perché siamo società di consulenza ma anche di revisione, e in questo modo cerchiamo di fornire quella comprensione e consapevolezza che spesso non si ha quando da neolaureati ci si candida per una Big Four senza sapere moltissimo delle attività. O ancora, spieghiamo come affrontare un business case durante un colloquio. Insomma sono incontri che vogliono fornire delle tip concrete».Anche se è difficile quantificare il numero esatto delle persone raggiunte in queste quattro edizioni, «negli anni passati sono stati migliaia» dice Eleonora Torre «gli studenti che ci hanno chiesto informazioni sul mondo della consulenza, quando ci sono state occasioni di mentoring o di contatto con il recruiter, e che hanno risposto in maniera attiva rispetto alle occasioni che il programma creava» ricorda Eleonora Torre. Ma l’obiettivo principale non è quello di selezionare nuove risorse: «Non è un programma di recruiting, ma un ripple, quindi nostre persone che mettono a disposizione dei giovani all'esterno le loro storie e il loro tempo per affrontare temi importanti nel mondo del lavoro e rispondere a domande e curiosità. Aprirsi e raccontarsi».Un “Ripple” è, nel gergo aziendale di EY, un programma global di volontariato di competenze: la società consente ai dipendenti di fare volontariato in orario lavorativo su quattro tematiche, di cui una è appunto avere un impatto sulle nuove generazioni. In questa categoria rientra EY4NextGeneration e tutte le ore che i dipendenti dedicano al programma sono identificate appunto come volontariato.Certo però è vero che, dal punto di vista dei giovani fruitori, «il programma crea un’occasione di recruiting in maniera indiretta» aggiunge Torre, «perché ci sono state persone che solo seguendolo si sono incuriosite ad EY e dopo sono entrate a far parte dell’azienda».Il settore della consulenza resta complesso, ma in questi  anni grazie al programma è aumentata l’interazione con le persone interessate a questo mondo anche perché «abbiamo cercato di renderlo più comprensibile possibile, di semplificare la complessità del concetto di “consulente”. La nostra non è un’azienda di prodotto, ma di servizio, e investire così tanto in iniziative come EY4NextGeneration pone l’accento su quello che effettivamente è il prodotto della società di consulenza: le sue persone» conclude Eleonora Torre. La consulenza oggi è oggetto di meme sui social ed è riuscita quindi ad avvicinare e incuriosire più giovani. Che nel 2024 avranno molte occasioni per togliersi tutti i dubbi a riguardo, seguendo gli appuntamenti settimanali di EY4NextGeneration: il prossimo il 20 marzo.Marianna Lepore

Stage in Toscana, cambia la normativa: l'indennità minima sale a 600 euro, incentivi solo se c'è assunzione

Un rimborso spese più alto per i tirocinanti, più controlli per evitare l’uso distorto dello stage e sostegno finanziario per le aziende vincolato alle assunzioni: sono i punti chiave delle nuove linee guida della Regione Toscana sui tirocini extracurriculari presentate la settimana scorsa dal presidente Eugenio Giani e dall’assessora al lavoro e formazione Alessandra Nardini. Obiettivo: migliorare l’uso degli stage e favorire realmente l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. Per arrivare a questo risultato c’è stato un lungo confronto con le parti sociali e i soggetti della Commissione regionale permanente tripartita con cui sono state poi approvate le linee guida.  Le nuove regole hanno avuto il via libera dalla giunta regionale con la delibera 206 del 26 febbraio e diventerannooperative tra circa un mese. La legge regionale in vigore resterà la 15 del 2018 e sarà modificato solo il suo regolamento attuativo.  «Raccogliamo una delle esigenze delle tirocinanti e dei tirocinanti: l’aumento dell’indennità mensile», ha spiegato durante la conferenza stampa l’assessora Nardini. Il minimo obbligatorio «dai 500 euro attuali passa a 600 euro» al mese, spiega, «accollandoci come Regione l’aumento dell’importo» – perché «se prima il rimborso complessivo dato alle aziende era di 300 euro, adesso diventa 400» al mese. In realtà la Regione Toscana non se lo accolla (giustamente) per tutti, ma  solo per quei soggetti ospitanti che poi assumono lo stagista. Il cambiamento più significativo infatti «è aver legato il contributo al tema dell’assunzione. Questo significa che l’azienda riceve il contributo solo se attiva entro 30 giorni dal termine dello stage un contratto o a tempo indeterminato, o a tempo determinato ma di almeno 12 mesi o un apprendistato professionalizzante o di primo o di terzo livello». Contributo che arriva a coprire il 100 per cento dell’indennità corrisposta dall’azienda nel caso in cui lo stagista poi assunto sia un soggetto disabile o svantaggiato. Gli incentivi sono erogati all’azienda ospitante anche nel caso in cui lo stagista sia assunto da un’altra azienda, entro sei mesi dal termine del tirocinio, «per riconoscere la valenza formativa dell’impresa». In questo caso il soggetto terzo che assume il tirocinante non resta comunque a bocca asciutta: può presentare domanda di incentivo all’occupazione attraverso gli avvisi di Arti, l’ente che gestisce la rete regionale dei centri per l’impiego e le misure di politica attiva in regione Toscana, che saranno estesi a questa tipologia.  Per esempio per uno stage di sei mesi fino ad oggi le aziende della Toscana potevano richiedere alla Regione un contributo per la copertura parziale dell'indennità di stage e ricevere una somma di 1.800 euro (300 per 6 mesi). D'ora in poi, con le nuove linee guida, il contributo regionale sale a 400 euro, quindi la somma a disposizione per un'azienda che ospita uno stagista per sei mesi sale a 2.400 euro (400 per 6 mesi), ma è subordinata alla stipula di un contratto entro un mese dal termine del tirocinio.L’impresa ospitante che procederà all’assunzione potrà fruire anche degli incentivi all’occupazione: 8.721 euro per un tempo indeterminato, cifra che sale a oltre 10mila in caso di disabili o svantaggiati, e fino a 4.360 euro per il tempo determinato o l’apprendistato. La notizia, quindi, è che l'azienda "virtuosa" potrà sommare ai classici incentivi all'occupazione anche il rimborso per l'indennità erogata per sei mesi al tirocinante poi assunto. Quindi per esempio se attiva un contratto a tempo indeterminato al giovane che ha ospitato in stage per sei mesi, potrà alla fine fruire di un totale contributo di 11.121 euro. Gli incentivi previsti nel caso di assunzione da parte della stessa impresa che ospita il tirocinante, sono una novità di questo atto perché il contributo economico è dato a tutte le imprese che assumono indipendentemetne dalla situazione di disagio o difficoltà. Le risorse investite saranno 27,5 milioni di euro a valere sul fondo Sociale europeo 2021/2027.Non solo più investimenti ma anche più controlli. «Grazie al rinnovato accordo con l’Ispettorato nazionale del lavoro e alle professionalità di chi lavora nella nostra Agenzia regionale toscana per l’impiego, ci saranno più operatori che potranno controllare il buon andamento dei tirocini», ha infatti annunciato Nardini, aggiungendo che «nel 2022 nella nostra regione sono stati attivati 16.104 tirocini, oltre la metà donne, e giovani, con quasi otto su dieci nella fascia fino a 29 anni». Purtroppo, poi però, l’assessora ha presentato dati imprecisi sui risultati occupazionali degli stage in Toscana: «Abbiamo il tasso di inserimento occupazionale più alto, il 67 per cento dei ragazzi ha firmato un contratto entro sei mesi secondo una recentissima ricerca della Fondazione studi consulenti del lavoro. Davanti a Veneto, Marche, Umbria ed Emilia Romagna, regioni che spesso sono indicate come traini per il Paese e molto sopra la media per il centro Italia, ferma al 62 per cento». Peccato che il 67% non si riferisca affatto ai tirocini extracurricolari attivati sul territorio toscano nel corso del 2022 citati poco prima. La percentuale è invece tratta da un documento intitolato “I tirocini di Fondazione Lavoro e l’inserimento occupazionale”, pubblicato dall'Ufficio studi della Fondazione Studi dei Consulenti del Lavoro, ed è riferita in realtà solo agli esiti dei tirocini promossi dalla Fondazione Lavoro. Cioè la Fondazione ha analizzato esclusivamente i tirocini “avviati e terminati” per i quali ha rivestito il ruolo di soggetto promotore, e ha conteggiato tutti gli stagisti che, a sei mesi dalla fine del tirocinio, risultavano essere stati assunti (sia nel posto dove era avvenuto lo stage, sia presso “altro datore”). La Fondazione Lavoro è però soltanto uno dei tanti soggetti promotori attivi nella Regione Toscana – e in tutta Italia: dei 307mila tirocini extracurricolari avviati in Italia nel corso del 2022, solo 21mila sono stati attivati dalla Fondazione, il 7% del totale. Ancor più nello specifico, dei quasi 14mila stage attivati in Toscana in quell'anno (in effetti è 13.746 il dato ufficiale del ministero del Lavoro), quelli promossi dalla (e dunque considerati nelle statistiche della) Fondazione Lavoro sono stati solamente poche centinaia: nello specifico, 526. Meno del 4% del totale. Dunque dire “67% di assunti post stage in Toscana” è un dato fuorviante, perché non fotografa l'esito occupazionale di tutti i tirocini extracurricolari avvenuti in Toscana, ma solo della microscopica fettina di stage che in questa Regione hanno avuto come soggetto promotore la Fondazione dei consulenti del lavoro. Quel 67% è cioè riferito ai poco meno di 3.500 tirocini attivati in Toscana (peraltro nell’arco di ben 9 anni, tra il 2014 e il 2022) dalla Fondazione Lavoro. E il confronto con le altre Regioni è sempre basato solo ed esclusivamente sui tirocini attivati dalla Fondazione. Un dettaglio che i vertici regionali avrebbero dovuto conoscere, e certamente esplicitare durante la conferenza stampa. Tornando alle novità annunciate, la nuova normativa prevede l’introduzione di un digital badge, un vero e proprio tesserino digitale che conserverà tutte le informazioni rispetto alle esperienze fatte e alla abilità acquisite. «Siamo la prima regione in Italia a utilizzare questo strumento» ha sottolineato Nardini: «Lo facciamo per migliorare e qualificare ancora di più lo stage. Era una riflessione già partita a livello nazionale con l’ex ministro Orlando che aveva iniziato un percorso di revisione delle linee guida a livello nazionale. Purtroppo, quel lavoro si è interrotto con il cambio di governo». Lavoro di cui proprio l’assessora si era occupata in prima linea da coordinatrice della Commissione lavoro e formazione professionale. «In Toscana, però, abbiamo deciso di fare la nostra parte, fermo restando le nostre competenze regionali e rimanendo nel perimetro delle linee guida nazionali che sono rimaste invariate, al contrario di quanto ci saremmo aspettati e per cui stavamo lavorando. Un risultato che abbiamo raggiunto in sinergia con le parti sociali». Il digital badge non è, però, una novità. Già nel 2005 era stato istituito il libretto formativo del cittadino, che aveva però dovuto aspettare il 2013 per avere una normativa che lo rendesse agibile e il 2015 per essere integrato nel fascicolo elettronico del lavoratore, una versione moderna e digitale del libretto. Nel 2017, quando la Repubblica degli Stagisti aveva dedicato un approfondimento al tema, risultavano essere quattro le regioni in cui era possibile richiedere lo strumento, largamente sottoutilizzato – tra cui proprio la Toscana. Questo nuovo badge avrà comunque una piattaforma a sé stante in cui si attesteranno (similmente al libretto formativo del cittadino) «le conoscenze, abilità e competenze acquisite dal tirocinante nel contesto formativo ed esperienziale sperimentato nel corso del tirocinio».Il presidente Giani e l’assessora Nardini hanno poi sottolineato il cambio di prospettiva sull'utilizzo dello stage, visto che il contributo messo a disposizione dalla regione sarà legato all’assunzione dello stagista entro sei mesi. E sarà la stessa amministrazione a verificarne l’eventualità.  Tra gli aspetti positivi delle nuove linee guida c’è anche la creazione di un Osservatorio regionale dei tirocini in collaborazione con l’Istituto Regionale Programmazione Economica della Toscana, Irpet, e l’ufficio regionale di statistica. Sarà proprio l’Osservatorio ad analizzare e verificare i risultati, in particolare per quanto riguarda la qualità dell’occupazione creata, dopo una prima fase di attuazione sperimentale di almeno un anno. Positivo il commento dei sindacati e delle associazioni datoriali. Monica Stelloni della Cgil [nella foto a sinistra] parla di un risultato «frutto di un metodo» e del tirocinio che «torna ad essere strumento di politica attiva» di cui l’osservatorio potrà finalmente misurare l’efficacia; Flavio Gambini, della Uil, sottolinea anche la volontà «di cercare il work in progress e vedere l’attuazione e l’impatto che avrà», e Stefano Boni, Cisl, plaude al fatto che il contributo sia vincolato a una effettiva assunzione «quindi una cosa reale, non fittizia» e si augura che «nei controlli si verifichino che non ci siano anche mansioni troppo ripetitive».   Sul fronte delle imprese, Tiziano Tempestini di Confcommercio parla di «nuova dignità» per la misura del tirocinio; Laura Simoncini, di Confartigianato, di «un percorso costruttivo»; e Gabriele Baccetti di Confindustria ricorda che «sarà il monitoraggio a dirci se la strada individuata è quella giusta, come pensiamo, o se sarà necessario introdurre dei correttivi». Secondo Cinzia Caraviello di Confesercenti «aver aumentato anche se solo di 100 euro il rimborso spese è comunque un indicatore importante perché si andrà a pagare meglio questi giovani. E ben venga il monitoraggio perché ci diamo del tempo per essere vigili su quello che succederà».  L’aumento del rimborso spese a 600 euro mensili è senza dubbio una notizia positiva. Con questa modifica la Toscana si pone immediatamente dietro al Lazio, la più virtuosa con un’indennità per gli stagisti di 800 euro al mese, condividendo la posizione con Valle d’Aosta, Piemonte, Abruzzo e Molise, come si vede anche dall’ultima Guida Best Stage 2023 della Repubblica degli Stagisti. Ora bisognerà aspettare per capire se le modifiche introdotte continueranno ad attestare la Regione tra le virtuose per uso dello stage o se, invece, le aziende decideranno di invertire la rotta. Marianna Lepore

Stage all'estero, opportunità nelle agenzie Ue con indennità fino a 2mila euro mensili

Se si spinge lo sguardo oltre i confini nazionali si possono trovare decine di opportunità di stage che prevedono rimborsi spese paragonabili, quando non superiori, agli stipendi italiani per un impiego vero e proprio. A cui vanno aggiunti i rimborsi per le spese di viaggio e le maggiorazioni in caso di disabilità, sempre presenti nei regolamenti. E non esistono solo i celeberrimi stage alla Commissione europea o al Parlamento europeo: ci sono molte agenzie dell’Unione europea meno conosciute, o delegate a missioni specifiche. La Repubblica degli Stagisti ha selezionato le migliori call aperte a cui è possibile partecipare in questo momento. Andando in ordine di consistenza dell'indennità, la prima è l’Eba, l’Autorità per le banche con sede a Parigi che si occupa di «salvaguardare l’integrità e la robustezza del settore bancario europeo» è scritto sul sito. Qui la borsa sfiora i 2mila euro mensili, per la precisione 1.974,46 euro, per un tirocinio di sei mesi prorogabile fino a 18. La tassazione eventuale dipenderà dal paese di origine, per questa come per le altre agenzie Ue. Non ci sono deadline per le candidature, perché «tutti i 'papabili' entrano a far parte di un bacino da cui attingere per tutto l’anno». I criteri per essere selezionati, oltre alla nazionalità, sono la conoscenza dell’inglese a un livello almeno B2 e una laurea anche solo triennale. Ma poi, a seconda dei profili, ci sono una serie di requisiti da rispettare.Per chi ad esempio optasse per uno stage all’ufficio esecutivo, in cui fornire supporto nella produzione di documentazione, serve una laurea in Economia, Legge, o Studi Internazionali e conoscenza del pacchetto Office. E ancora, per il dipartimento Clienti è richiesta esperienza nelle mansioni da espletare relative alla finanza digitale (l’ufficio si occupa della protezione degli utenti nei pagamenti digitali). Ci si candida con una mail, inviando curriculum in formato europeo e lettera di motivazione, oltre alle copie delle proprie certificazioni. Si parte con una scrematura, la richiesta di un colloquio telefonico in inglese, e infine ai selezionati arriva infine una lettera da firmare contestualmente all’invio dei propri diplomi in originale. L’alternativa è spedire copie certificate. Le posizioni sono in tutto circa 25 ogni anno. La seconda agenzia è l’Esma, incaricata di supervisionare la stabilità del sistema finanziario europeo. Anche questa ha sede a Parigi, e il rimborso è ancora molto alto, pari a 1.770 euro mensili. Le vacancies sono al momento tre, per profili in ambito economico, legale e amministrativo, tutti con scadenza al 31 dicembre prossimo. La durata va dai sei ai dodici mesi, e per i requisiti si ripetono ancora una volta le condizioni valide per tutte le istituzioni Ue. La laurea almeno triennale quindi, e la conoscenza dell’inglese. Per ogni singola posizione poi possono cambiare, a seconda dei casi, i requisiti di accesso. Da notare che l’Esma prevede un’altra tipologia di stage per chi non abbia ancora conseguito la laurea, ma stia frequentando l'università (i famosi curricolari, che molte istituzioni italiane blasonate neanche pagano, come abbiamo denunciato a più riprese qui sulla Repubblica degli Stagisti). Per gli stagisti-studenti il compenso previsto è 1.185 euro al meseLa terza è l’agenzia spaziale europea Euspa, con sede a Praga. L’offerta include un tirocinio della durata massima di un anno, e l’importo è di 1.500 euro mensili, aumentato di 100 euro con un provvedimento dello scorso dicembre. Qui poi è anche riconosciuta una indennità per il viaggio di andata e ritorno fino a 1200 euro mensili. Le posizioni aperte al momento sono 11, con deadline fissata per le candidature al 31 maggio prossimo.Gli stage vanno dall’area Innovazione, al Legale, IT, Risorse Umane, Comunicazione a quelle più specifiche dell’agenzia come la Sorveglianza dello Spazio e le Politiche per la sua sostenibilità. Per candidarsi si accede per ogni posizione al link del sito. In generale però non esistono tempistiche precise di reclutamento, perché sarà l’agenzia che di volta in volta, in base alle esigenze di personale, andrà a selezionare tra le candidature inviate. Valgono le regole comuni di accesso per tutti gli stage nelle istituzioni europee: servono quindi laurea e conoscenza dell’inglese oltre che, quando richiesto dai profili, di una seconda lingua europea. E infine c’è l'Acer, organismo Ue che promuove l'integrazione e il coordinamento del lavoro dei regolatori nazionali dell'energia, con sede a Lubiana, in Slovenia. Il “grant” è più modesto, di 1.265 euro mensili, ma da rapportare a un costo della vita sicuramente inferiore rispetto per esempio alla capitale francese. E poi, oltre ai rimborsi per il viaggio, è concesso a tutti gli stagisti anche un pass gratuito per il trasporto pubblico. Ci sono una decina di disponibilità, ognuna in un diverso settore dell’agenzia (ad esempio gas, elettricità, trasparenza) e con specifiche mansioni e requisiti.Questi ultimi collegati alla singola posizione, oltre a quelli validi sempre (laurea e conoscenza della lingua, in questo caso pari al livello minimo C2). Inoltre Acer dichiara di aver aperto l’opportunità anche ai laureati provenienti dall’Ucraina, seppure non ufficialmente in Europa (ma in loro sostegno per lo stato di guerra). La durata va dai tre ai sei mesi, estendibili a un anno. E anche qui, come nelle altre agenzie, una volta inviata la candidatura, ci si può aspettare una chiamata in qualsiasi momento, a seconda delle necessità di personale. Ilaria Mariotti   

Diritti degli stagisti, mai più tirocini gratuiti: la Commissione europea promette una direttiva entro giugno

A giugno del 2023 il Parlamento europeo aveva approvato una risoluzione per dire basta agli stage privi di rimborso spese. Eppure gli stage gratuiti non sono magicamente scomparsi: continuano a proliferare in tutta Europa – perché, si sa, tra gli annunci della politica e i fatti concreti spesso passa molto tempo. E ancora nessuna restrizione normativa è intervenuta a vietarli. A inizio gennaio di quest’anno, la Commissione europea si è finalmente impegnata a presentare una proposta legislativa prima della scadenza della legislatura per migliorare le condizioni dei tirocinanti in Europa: i tempi della Commissione sono dunque estremamente ristretti, visto che tra tre mesi ci sono le nuove elezioni europee. In questi ultimi due mesi però non ci sono stati aggiornamenti, e le bocche degli addetti ai lavori sono rimaste cucite; ma qualche settimana fa il Parlamento europeo ha organizzato un dibattito coinvolgendo le due altre istituzioni più rappresentative, Commissione e Consiglio, per chiedere per gli stagisti – per l’ennesima volta – norme e condizioni migliori. Tra le richieste principali dei deputati ci sono indicazioni chiare sulla durata massima dei periodi di tirocinio, compensi minimi obbligatori a favore dei tirocinanti (anche curricolari), e l’accesso alla protezione sociale.  Durante l’evento Nicolas Schmit, Commissario europeo per il lavoro e i diritti sociali, si è detto convinto che «il vantaggio dei tirocini non sia solo per i tirocinanti. Non riguarda solo i giovani, ma anche le aziende». Per questo motivo «devono essere pagati: per riconoscere il contributo dei giovani». Schmit ha assicurato che la Commissione sta preparando «un’iniziativa per aggiornare il quadro di qualità dell’Unione europea per i tirocini, da presentare prima della fine della legislatura di questo Parlamento».  L’aspetto più importante – la vera notizia – è che Schmit ha precisato che l’iniziativa a cui sta pensando la Commissione è una direttiva, a cui sarà associata anche una raccomandazione. (La direttiva è un atto giuridico che stabilisce un obiettivo che i Paesi membri devono raggiungere, lasciando comunque piena libertà su come farlo; la raccomandazione invece non è vincolante: in pratica è un modo per le istituzioni europee di rendere note le loro posizioni e suggerire linee di azione, senza imporre obblighi).  Schmit ha precisato che la Commissione è vincolata a comportarsi in questo modo anche se a suo avviso non è il metodo ideale, e ha rimarcato che è «giunto il momento di agire». Perché è «una questione di dignità, di giustizia sociale, di parità di accesso. Stiamo finalizzando la proposta legislativa: arriverà. E ringrazio il Parlamento per l’insistenza e l’impegno su questo tema importante per i giovani» ha detto. Tra gli interventi durante il dibattito non è mancato quello di Brando Benifei, capogruppo del Partito democratico all’Europarlamento e da sempre attivo nelle battaglie per i diritti dei giovani. Benifei ha ricordato che in Europa sono circa quattro milioni all’anno i giovani che svolgono un tirocinio come primo passo per entrare nel mondo del lavoro (si tratta, come già spiegato da Eva Lindström della Corte dei conti europea, del numero stimato degli extracurriculari: contando anche i curricolari si arriva addirittura a 13 milioni all’anno).«Ora siamo a un passo da un traguardo storico», ha sottolineato Benifei nel suo intervento, «la pubblicazione da parte della Commissione di una direttiva sulla qualità dei tirocini, che deve stabilire alcuni concetti chiave: basta allo sfruttamento del lavoro giovanile, basta a stage e tirocini non pagati, basta a condizioni lavorative umilianti e non trasparenti, basta alla sostituzione di regolari posti di lavoro con tirocini, una pratica vergognosa per abbattere costi, obblighi e diritti, riducendo l’uso dell’apprendistato». Anche Monica Semedo, europarlamentare democratica del Lussemburgo che aveva presentato la risoluzione poi approvata lo scorso giugno, ha ripercorso le richieste: «una remunerazione equa per evitare abusi, una durata limitata a sei mesi, tirocini inclusivi e accessibili a tutti e più stage trasnazionali». Ma soprattutto ha invitato a fare presto per i giovani europei, e ad approvare tutto entro il termine del mandato del Parlamento, ovvero entro tre mesi.L'estremo ritardo è stato sottolineato, dalle fila del gruppo della sinistra unitaria europea, dall'eurodeputata francese Leila Chaibi, che nel 2005 faceva parte del collettivo Generation Précaire. Il collettivo aveva all'epoca lanciato un appello per lo sciopero dei tirocinanti. Sono passati vent’anni e i bambini di allora sono gli stagisti, sottopagati, di oggi: «Niente è cambiato», ha detto Chaibi. Per ora, quantomeno.L’aspetto più volte ricordato è che il 2023 è stato l’Anno europeo della gioventù; ma nonostante i festeggiamenti, l’Unione europea ha dimenticato di fare la cosa più importante: dare delle regole precise per i tirocini, limitarne l’abuso, aiutare i giovani a entrare dignitosamente nel mondo del lavoro. E sopratutto stabilire una volta per tutte cos’è un tirocinio. Come sottolineato nel report della Corte dei Conti europea “Azioni dell’Ue a sostegno dei tirocini destinati ai giovani”, presentato a inizio febbraio, nonostante i numeri dei tirocinanti aumentino, ancora non esiste una definizione chiara di cosa sia uno stage, con sedici Paesi membri su ventisette che non hanno una definizione giuridica del tirocinio. Perciò servono norme uniformi e coerenti in tutto il panorama europeo e indicazioni chiare dal Consiglio.  Tra gli interventi durante l'evento al Parlamento europeo anche quello di Gianantonio Da Re, leghista del gruppo Identità e Democrazia, che a inizio febbraio ha presentato alla Commissione un’interrogazione con richiesta di risposta scritta relativa ai dati pubblicati dalla Corte dei Conti europea, in cui chiede quali misure intenda adottare per migliorare il settore dei tirocini, sia curricolari che extracurricolari, e favorire l’occupazione dei giovani europei.  Uno degli aspetti evidenziati da quasi tutti i parlamentari è anche l’imminente voto di giugno – che potrebbe segnare un forte astensionismo da parte dei giovani, delusi dalle promesse non mantenute di questo esecutivo. In chiusura di dibattito il commissario Schmit ha ribadito che si tratta di «una questione di giustizia sociale, perché coloro che non hanno genitori che possono sostenere le spese non possono partecipare a un tirocinio e la loro situazione sul mercato del lavoro non ne trarrà alcun miglioramento». E dopo aver rassicurato che la proposta legislativa arriverà in tempo ha anche pungolato gli Stati membri, invitandoli a fare a loro volta attenzione e garantire che anche il lavoro dei giovani meriti una retribuzione. Alla seduta del Parlamento hanno fatto seguito le dichiarazioni del gruppo dei Socialisti e Democratici, che per primi avevano caldeggiato una legge europea per garantire una indennità equa e pieni diritti per tutti i tirocinanti. Alicia Homs, relatrice della proposta, ha ribadito che sono necessari contratti scritti, limitati nel tempo e accesso alla previdenza sociale e alla rappresentanza sindacale per i tirocinanti, perché «i giovani europei non sono manodopera a basso costo o gratuita e non dovrebbero essere intrappolati in tirocini interminabili prima di iniziare la loro carriera e vita indipendente». Agnes Jongerius, portavoce del gruppo, le ha fatto eco ricordando che «i giovani sono uno dei gruppi più vulnerabili del mercato del lavoro. Dobbiamo fare in modo che l’occupazione di qualità inizi con le loro opportunità di tirocinio».  L’ultima parola spetta alla Commissione europea, che ha ora, un po’ in zona Cesarini, la grande opportunità di lasciare un segno del suo mandato andando incontro ai giovani. La userà bene?Marianna Lepore

600mila studenti fuorisede potranno votare alle Europee: ma per altri 4 milioni di cittadini il diritto non è ancora garantito

Ci sono voluti sedici anni di attesa, ma alla fine il primo traguardo è stato raggiunto: la settimana scorsa la Commissione affari costituzionali in Senato ha approvato all’unanimità un emendamento al decreto elezioni presentato da Fratelli d’Italia per consentire alle prossime elezioni europee di giugno il voto fuori sede per chi è temporaneamente domiciliato per motivi di studio lontano dalla propria residenza abituale. «Siamo molto contenti che la politica abbia finalmente dato una risposta concreta, ma non siamo del tutto soddisfatti perché è un risultato parziale, rivolto solo agli studenti fuorisede e non a tutta la platea di cittadini coinvolti dal problema» commenta a caldo Stefano La Barbera, fondatore del comitato Io voto fuori sede alla Repubblica degli Stagisti. Il comitato è nato nel 2008 per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema del diritto di voto per i cittadini in mobilità e da allora si è battuto per far approvare una legge che garantisca questo diritto a coloro che vivono lontano dalla loro residenza. «Circa 4,9 milioni di cittadini», precisa La Barbera: più del dieci per cento del corpo elettorale. Così oggi da una parte si festeggia, ma allo stesso tempo si continua a chiedere alla politica «di dare una risposta a tutti i cittadini in mobilità, non solo ad alcune categorie. E quindi di fare un dispositivo che permetta a prescindere dalla condizione del singolo che si trova in mobilità, di poter votare senza dover giustificare la propria posizione». Che sia malato, studente, lavoratore, viaggiatore, non deve essere importante, l’unica cosa che andrebbe presa in considerazione è il fatto che si trovi lontano dalla propria residenza. L’articolo 1 del testo approvato prevede che «In occasione delle elezioni dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia per l’anno 2024, gli elettori fuori sede che per motivi di studio sono temporaneamente domiciliati, per un periodo di almeno tre mesi» in cui ricade la data del voto, «in un comune italiano situato in una regione diversa» da quella in cui si è iscritti nelle liste elettorali, «possono esercitare il diritto di voto» con le modalità in seguito illustrate. Viene da chiedersi perché sia stata data questa possibilità per le europee e non anche per le amministrative, accorpate peraltro in un unico election day. La Barbera guarda il bicchiere mezzo pieno e lo considera un primo passo per «venire incontro alle sollecitazioni che abbiamo fatto come comitati e società civile», possibile anche perché meno complicato nella gestione rispetto alle regionali. «Le elezioni europee hanno circoscrizioni molto più ampie, solo cinque: Nord est, Nord ovest, Sud, Centro e Isole. Quindi sono solo cinque schede elettorali che dovrebbero eventualmente essere stampate nelle varie circoscrizioni e questo semplifica di molto le disposizioni elettorali. Sarà la prima volta che si sperimenterà questo sistema e il ministero dell’interno vuole valutare l’impatto che questa tipologia di voto avrà sull’andamento del processo elettorale prima di allargarlo alle altre elezioni. Questo è il motivo tecnico per cui la maggioranza è riuscita ad approvare il voto fuori sede solo per le europee». La Barbera ripercorre proprio le ultime settimane, quando durante il festival di Sanremo l’attenzione al tema è cresciuta grazie alla mobilitazione con le matite che molti cantanti hanno portato sul palco. «Così è arrivata la nostra richiesta a maggioranza e governo di studiare una soluzione». Una legge delega nei confronti del Governo, già approvata alla Camera, è in questo momento in votazione alla Commissione affari costituzionali del Senato; poi dovrà passare in assemblea. «Vogliamo che sia approvata al più presto perché l’emendamento di cui oggi parliamo vale solo per le europee di giugno» ed è dunque un provvedimento «a termine. Mentre la legge delega introduce il voto a distanza definitivamente nel nostro ordinamento, anche se limitatamente a europee e referendum, con possibile allargamento alle politiche». Legge delega che consentirebbe, quindi, a tutti i fuorisede, non solo agli studenti, di esercitare il proprio voto dove si risiede temporalmente. «La nostra richiesta» continua La Barbera, «è fare in fretta ed evitare che alle prossime elezioni accada di nuovo che milioni di cittadini non riescano a votare. In questo caso sarebbe tutto più complesso perché le tessere elettorali sono diverse per ogni singola realtà amministrativa, quindi il dispositivo va studiato con maggiore accuratezza e sicuramente il ministero dell’interno da questa sperimentazione trarrà le sue considerazioni». Al momento, quindi, la legge delega è ferma al Senato e se approvata non entrerà in vigore a breve perché «prevede un massimo di diciotto mesi dalla sua approvazione per produrre il dispositivo: questo significa che ci vorrà ancora molto tempo». La buona notizia, però, è che finalmente qualcosa si muove e con l’unanimità dei partiti sul tema. «Dopo tanti anni abbiamo diffuso nella classe politica la consapevolezza che questa fosse una tematica non più rimandabile. E poi una pietra miliare l’ha messa il Libro bianco sull’astensionismo, che è un documento governativo del 2022 da cui sono uscite le cifre: 4,9 milioni di elettori» che esercitano l’astensionismo involontario. Ovvero coloro che svolgono la propria attività lavorativa o frequentano corsi di studio scolastici o universitari in luoghi diversi dalla Provincia o Città metropolitana di residenza. La Repubblica degli Stagisti aveva raccontato due anni fa i contenuti del Libro bianco, e le sue tre soluzioni per ridimensionare le cifre dell’astensionismo: digitalizzazione della tessera e delle liste elettorali, election day e voto anticipato presidiato. Con questi numeri, «la politica non ha più potuto guardare dall’altra parte», osserva La Barbera. E poi c’è il supporto ricevuto negli anni anche da altre realtà. «Noi siamo il primo comitato nato nel lontano 2008, dopo si sono aggiunte altre associazioni: la prima è stata The Good Lobby, con cui poi abbiamo costituito la rete Voto sano da lontano formata da una dozzina di associazioni. Poi nell’ultimo anno si è unito anche Will, dando un enorme supporto dal punto di vista mediatico, grazie alla loro capacità di focalizzare l’attenzione dell’opinione pubblica in maniera costante». Ora che la Commissione ha approvato l’emendamento, il testo è stato inserito nel decreto elezioni che deve essere approvato al Senato, dove arriverà nella settimana tra il 12 e il 14 marzo, e poi passare alla Camera per la definitiva approvazione entro il 29 marzo. Dal 20 aprile, poi, comincerà il processo elettorale, quindi il Presidente della Repubblica dovrà indire i comizi elettorali. «Diamo per scontato che il testo arrivi ad approvazione, non ci aspettiamo cambiamenti, non ci sarebbe altrimenti il tempo per la staffetta Camera – Senato. Per questo motivo festeggiamo il traguardo perché ora non dovrebbero più esserci sorprese». Il rischio, però, «è che la politica si rilassi. Che dica: il nostro l’abbiamo fatto, e decida di riprendere l’esame della delega dopo le Europee. Non vogliamo che accada: la nostra campagna è per una legge per il diritto di voto per tutti e siamo a un passo dall’averlo. Non vogliamo distrarre l’opinione pubblica con questa soluzione ponte appena approvata». La buona notizia è che tutti gli studenti fuori sede temporaneamente residenti in un comune diverso da quello di residenza potranno esercitare il proprio diritto di voto alle elezioni europee dell’8 e 9 giugno senza necessariamente macinare chilometri in un weekend per tornare a casa. «È importante comunicare il più possibile questa notizia ed evitare l’effetto boomerang che alla fine siano in pochi a votare fuori sede», mette in guardia La Barbera. Una comunicazione necessaria anche perché non basta recarsi in un altro seggio la mattina stessa delle elezioni. Bisogna presentare apposita domanda, anche in forma telematica, al comune nelle cui liste elettorali si è iscritti. E bisogna farlo almeno 35 giorni prima della data della consultazione con la possibilità di revoca entro il 25esimo giorno antecedente. Questo significa che il 4 maggio è la data ultima per fare domanda; nel caso si cambiasse idea, la revoca va fatta non oltre il 14 maggio. Poi cinque giorni prima del voto sarà il comune di temporaneo domicilio a rilasciare, anche attraverso strumenti telematici, un’attestazione di ammissione al voto con l’indicazione del numero e dell’indirizzo della sezione presso cui votare. In pratica tra la data probabile di approvazione del provvedimento, il 29 marzo, e il giorno ultimo per aderire, ci saranno poco più di trenta giorni per informare chi è interessato. «Perciò è importantissimo diffondere la notizia per evitare che vadano pochi studenti fuori sede a votare e si dia motivo alla politica di dire la legge non è necessaria», conclude La Barbera. I giovani che potrebbero approfittare del provvedimento saranno circa 600mila fuorisede, che dovranno comportarsi, però, in maniera diversa in base a dove si trova il domicilio. Chi studia in una Regione che è nella stessa circoscrizione elettorale del proprio Comune di residenza, voterà nel Comune in cui è fuorisede. Ad esempio il giovane che è di Potenza ma studia a Salerno, potrà votare a Salerno, nel seggio che gli sarà indicato dopo l’accettazione della richiesta. Se, invece, il giovane è di Potenza ma studia a Pavia, dovrà spostarsi nel capoluogo della Regione in cui è fuorisede, (con uno sconto sui trasporti) quindi in questo caso andare a Milano. Questo perché i candidati sono diversi tra le cinque circoscrizioni (Nord est, Nord Ovest, Centro, Sud, Isole) e quindi il capoluogo fungerà da punto di raccolta per i fuorisede.   Il costo per coprire la nuova organizzazione sarà di 615mila euro attraverso risorse del fondo per le spese delle elezioni politiche, amministrative, europee e dell’attuazione dei referendum. L’iter potrebbe in futuro cambiare a seconda delle decisioni inserite nella legge delega ancora in discussione. Nel frattempo, grazie all’emendamento approvato si riuscirà almeno in parte a bloccare la contraddizione esistente dal 2015, quando con l’entrata in vigore dell’Italicum, è stata introdotta la possibilità di votare per gli italiani che si trovano momentaneamente all’estero per motivi di studio, lavoro o per curarsi, ma non per chi da un posto in Italia si sposta temporaneamente in un altro posto in Italia, senza cambiare residenza. Per chi è fuori dal territorio nazionale, ad esempio il giovane di Potenza che studia a Parigi o a Barcellona, è quindi già possibile da quasi dieci anni votare dall’estero anche senza essere iscritti all’Aire (l’anagrafe degli italiani residenti all’estero). È necessario, però, presentare domanda entro l’ottantesimo giorno antecedente l’ultimo giorno delle votazioni, quindi in questo caso il 21 marzo, alla rappresentanza diplomatico-consolare competente in base al temporaneo domicilio. Il voto si esercita presso i seggi istituiti dagli uffici consolari: precedentemente sarà il Ministero dell’Interno a inviare il certificato elettorale con l’indicazione del seggio presso cui votare, data e orario di apertura delle votazioni. Ora bisognerà vedere cosa succederà in aula. Il senatore Andrea Giorgis, Pd, ha già annunciato che richiederà l’estensione di questo diritto di voto a tutti, non solo gli studenti; dello stesso parere anche Mariastella Gelmini di Azione, che ha parlato di un errore l’esclusione dei lavoratori. Il tempo certamente stringe, ma per ora gli studenti universitari possono festeggiare. Marianna LeporeFoto in basso a destra: di Diliff da Wikipedia in modalità Creative Commons

Tirocini gratuiti, l’Unesco predica bene e razzola male

Sei mesi a Parigi, nella sede centrale dell'Unesco, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura. Sei mesi di tirocinio in una delle città con il costo della vita più alto in Europa: ma senza un rimborso spese mensile, senza ticket per il pranzo o accesso gratuito a qualche mensa, senza tessera per i mezzi pubblici, senza rimborso anche parziale delle spese di viaggio o di alloggio.  L’esperienza di mettere piede per qualche mese, anche se solo da stagista, in un’organizzazione del genere fa gola a molti – ma ancora una volta potranno permettersi questa opportunità solo quanti hanno alle spalle una famiglia che si sobbarcherà tutte le spese di permanenza per sei mesi a Parigi.E pensare che quando l’Unesco è nata, nel 1945, si era posta come obiettivo quello di contribuire alla costruzione della pace internazionale, di sviluppare il dialogo interculturale e combattere la povertà. Eppure oggi ritiene normale offrire dei tirocini senza prevedere un euro. Nella descrizione dell’offerta di stage l’Organizzazione è molto chiara nel dettagliare l’opportunità, i requisiti richiesti, le competenze, gli obiettivi di apprendimento e anche i benefici e diritti per gli stagisti: «L’Unesco non paga i tirocinanti. Non è previsto alcun compenso, finanziario o di altro tipo, per gli incarichi di tirocinio. Gli stagisti hanno diritto a 2,5 giorni di ferie al mese durante il loro stage».Nero su bianco, senza problemi. L'Unesco lo ricorda fin dal documento per far domanda: non vi diamo nulla. Quindi l’Organizzazione delle Nazioni Unite che vorrebbe «garantire che ogni bambino, giovane e adulto abbia accesso a un’istruzione di qualità per tutta la vita», ha però deciso di offrire un programma di stage solo per alcuni: quelli che possono permetterselo.Le sedi di servizio dei tirocini saranno il quartier generale di Parigi e poi una delle altre 50 sedi sul campo distribuite in tutto il mondo o uno dei nove istituti o centri di prima categoria. Sempre senza alcuna indennità.Non è certo una novità che l’Unesco non paghi: non l’ha mai fatto. Sorprende, però, che dopo quasi dieci anni di proteste e movimenti nati per denunciare lo sfruttamento degli stagisti nella galassia delle Nazioni Unite, non sia cambiato nulla. Già dal lontano 2015 a Ginevra è attiva, infatti, la campagna Fair Internship Initiative per portare alla ribalta la pratica discriminatoria dei tirocini senza rimborso spese all’interno dei palazzi dell’Onu. Gran parte degli stagisti infatti provengono solo da alcuni Paesi e tutti sono costretti a sacrifici enormi per vedere realizzato il sogno di fare uno stage prestigioso. Dopo tanti anni di manifestazioni e proteste qualche risultato è stato portato a casa. Se nove anni fa a pagare erano solo Ilo, Fao, Iom e Oms, oggi l’elenco è un po’ più lungo (e si può consultare su un database che i gestori della Fair Internship Initiative aggiornano periodicamente), ma ancora gli uffici più importanti come il Segretariato Onu, con tutti i dipartimenti collegati, o l’Unesco appunto, non prevedono indennità per i tirocinanti. Per il Segretariato qualcosa potrebbe cambiare, almeno sulla carta, tra un paio d’anni, sempre che venga dato seguito a una riforma approvata nel marzo 2023. Sei anni fa, nel 2018, l’ispettorato delle Nazioni Unite (Join inspection unit) aveva, infatti, definito l’abitudine di non pagare gli stagisti in contrasto con i valori chiave e il mandato dell’Onu. A questo aveva fatto seguito una raccomandazione per il Segretariato generale a intraprendere una riforma del programma di tirocini che includesse una borsa di studio. Con tempi a dir poco biblici la riforma è stata, appunto, approvata lo scorso anno, rimandando però la discussione alla riunione di marzo 2025 (marzo duemilaventicinque!) quando il Segretariato dovrebbe ripresentarsi con una proposta. Per ora quindi tutto tace e il silenzio non fa ben sperare. Ma se anche durante la Fifth Commission del prossimo anno dovessero esserci novità positive, questo non andrebbe a intaccare quello che succede con gli stage all’Unesco. L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura, infatti, rientra tra le agenzie specializzate dell’Onu e in quanto tale ha un proprio budget e una propria assemblea composta dai rappresentanti degli Stati membri. Questo significa che è anche dotata di autonomia decisionale e che le scelte fatte in sede di Segretariato non devono necessariamente ripercuotersi su di essa. In teoria dovrebbe essere più semplice cambiare le cose all’interno di un’agenzia specializzata, ma ad oggi non c’è stata la volontà politica di fare un passo avanti verso i diritti degli stagisti. Che, infatti, mettono tutti quanti in luce la criticità dell’assenza di un rimborso spese su una piattaforma come Glassdoor, il sito internet su cui impiegati o ex impiegati recensiscono anonimamente aziende e superiori. L’Unesco, quindi, ha un proprio bilancio di spesa biennale: l’ultimo è stato approvato a giugno 2022 per un totale di 1,5 miliardi di dollari, saliti a 1,8 nel bilancio approvato per il 2023/2024. Ed è proprio l’Unesco a sottolineare nel proprio sito che «l’ultimo anno di crisi ha evidenziato, più che mai, l’importanza cruciale di un’istruzione di qualità» e anche «della promozione dell’inclusione e della lotta alla discriminazione». Non solo, a causa della crisi pandemica, «quasi 1,6 miliardi di studenti sono stati colpiti dalla chiusura di scuole e università, causando la più grave interruzione dell’istruzione nella storia». Eppure l’Organizzazione per l’educazione, la scienza e la cultura, non reputa necessario inserire in bilancio un capitolo di spesa per pagare i propri tirocinanti e questo nonostante abbia, a novembre 2023, approvato un aumento storico del proprio bilancio del 25 per cento per rafforzare «la propria azione a favore dell’istruzione, della scienza, della cultura e dell’informazione in tutto il mondo». Nessun richiamo ai tirocinanti occupati oggi gratuitamente nei propri uffici per i quali non è previsto alcun minimo rimborso spese. Il classico caso di chi predica bene e razzola male.(Se nonostante gli aspetti negativi si volesse ugualmente far domanda, è necessario candidarsi entro il 30 giugno e si può farlo direttamente dal sito web dell’Unesco nella pagina dedicata alle offerte di tirocinio. Bisogna essere iscritti a un corso di laurea e avere almeno vent'anni. Quattordici i settori in cui è possibile farlo, a Parigi o in altre sedi). L’auspicio è che in Unesco si apra il dibattito sulla necessità di pagare i tirocinanti, ma all’orizzonte non ci sono segnali di questo tipo. E purtroppo non stupisce visto che proprio il segretario generale dell’Onu, Antonio Guteress, già nel 2017 decise di rispondere a una domanda di uno stagista che chiedeva se a suo avviso fosse giusto non pagare i tirocinanti che «anche se non hanno un rimborso spese, ogni anno ci sono tante domande per questi tirocini perché sono un’esperienza straordinaria», aggiungendo che avrebbe preferito un sistema misto, quindi tirocini sempre senza rimborso spese ma «per chi non ha risorse per affrontarlo, delle speciali borse di studio». Ma quello che servono non sono trattamenti speciali: bisogna semplicemente costruire un programma di tirocini equo, mettendo a budget le risorse per offrire una dignitosa indennità a tutti gli stagisti. Da parte di una Organizzazione delle Nazioni Unite votata all’educazione, la scienza e la cultura sarebbe, francamente, il minimo.Marianna LeporeFoto: logo Unesco da Wikimedia in modalità creative commonsFoto in alto a destra: da Flickr in modalità creative commons

Portare lavoro al Sud, grazie al cambio di paradigma digitale Bip apre due nuove sedi in Puglia

Creare lavoro al sud Italia. Una missione urgente, se si pensa che dalle Regioni del Mezzogiorno tra il 2002 e il 2021 c'è stato un “deflusso netto” di 808mila under 35, di cui 263mila laureati: oltre l'80% di loro, stando al Rapporto Svimez, si è spostato al centro-nord. In quello stesso periodo la quota di emigrati meridionali con elevate competenze si è quasi quadruplicata: oggi sono quasi uno su tre quelli che partono con una laurea in tasca.Perché si lascia la propria terra? A volte per curiosità, voglia di scoprire il resto del mondo. A volte, invece, perché si sente di non avere altra scelta. E molto spesso, in questo caso, la ragione è semplice: la mancanza di lavoro, o di un lavoro adeguato alle proprie competenze e ambizioni. Se nel posto in cui si vive non c'è un mercato del lavoro sufficientemente mobile, stimolante, si va a cercare opportunità altrove. Capita che la scelta avvenga addirittura prima: tra il 2000 e il 2022 le università del Mezzogiorno hanno registrato una diminuzione degli immatricolati del 4%, mentre quelle del centro-nord un incremento del 30%. Gli studenti meridionali che "salgono" fin dalla triennale per studiare, racconta lo Svimez, sono sempre di più – così come quelli che, completata la triennale nella loro Regione d'origine, scelgono il centro-nord per la magistrale o un master. Così il sud d'Italia si spopola – la popolazione tra il 2011 e il 2023 si è ridotta di oltre un milione di persone, a fronte di una sostanziale stabilità nel centro-nord – e ad andarsene sono sopratutto quelle energie giovani che invece avrebbero tanto da dare ai territori.E quindi, bisogna creare lavoro al sud. Creare imprese locali, certo. Ma anche, da parte di aziende nate al centro-nord, aprire sedi nel Mezzogiorno. È uno dei progetti di Bip, la più grande società di consulenza a matrice italiana, da molti anni parte del network di aziende virtuose della Repubblica degli Stagisti. Dopo aver aperto uffici a Palermo, Catania e Messina, Bip sbarca ora in Puglia con una doppietta: una sede “flagship” a Bari e una sede “di progetto”, in joint-venture con un'azienda cliente, a Lecce.«Ci stiamo muovendo nei territori dove c'è un incrocio tra buone università, e quindi disponibilità di talenti, e la possibilità di servire i clienti al meglio, con infrastrutture adeguate» spiega Alberto Idone, entrato in Bip nel 2004, quando era un ventiseienne fresco di laurea in microelettronica appena tornato da un biennio negli Usa, e cresciuto all'interno dell'azienda fino ad essere oggi, a 45 anni, partner con la responsabilità di group managing partner Italy. Le università, in particolare, sono un nodo centrale dell'iniziativa: Bip è interessata soprattutto a candidati con background STEM (science, technology, engineering and mathematics)  e «il livello di gestione e di qualità degli atenei del Sud è adesso molto alto» assicura Idone. Un circolo virtuoso, perché la partnership di una grande azienda (oggi Bip è presente in tredici Paesi nel mondo e impiega oltre 5mila persone a livello globale) con le università porta anche gli studenti ad avere più fiducia in un possibile sbocco lavorativo dopo la laurea: «Uno dei temi annosi del Sud è che molti giovani non vanno all'università perché dopo non c'è un futuro, e allora pensano che sia meglio iniziare a lavorare». Da questo cul-de-sac si esce solo creando effettivamente opportunità di lavoro di qualità nei territori. Peraltro, Bip seleziona per le sue sedi al sud anche profili umanistici, per ruoli di organizzazione e di risorse umane.All'inaugurazione della sede di Bari, a fine gennaio, era presente il sindaco Antonio De Caro; il presidente della Regione Michele Emiliano è passato il giorno dopo, durante il “Talent Discovery Day” organizzato per far conoscere Bip alla città e raccogliere le prime candidature spontanee. Il progetto prevede di portare 250 posti di lavoro in Puglia da qui alla fine del 2025: al momento in organico ci sono già una trentina di persone, e le risorse umane sono al lavoro per vagliare i cv arrivati – già oltre duecento. E il famigerato digital divide? «Il 60% dei residenti del Mezzogiorno ha difficoltà di accesso a Internet, è vero; ma il gap in questi anni è stato colmato parecchio, soprattutto nei grandi centri cittadini. La situazione cambia ovviamente nei paesi dell'entroterra, ma nel caso di Bari, Lecce, Palermo non abbiamo alcun problema» assicura Idone: «La riduzione del digital divide è un fattore abilitante. Dieci anni fa, o anche solo cinque, sarebbe stato impossibile, perché per il nostro lavoro abbiamo bisogno della banda larga» non solo banalmente per le riunioni Teams ma anche «per alcune attività in cui ci sono grandi file da trasferire: la banda larga è precondizione». E nei grandi capoluoghi del Mezzogiorno funziona bene come a Milano.Le sedi al sud possono anche essere preziose per le persone che vogliono “tornare”. A chi proviene dalla Puglia, o dalla Sicilia, e un lavoro ce l'ha già – in Bip, o altrove – al centro-nord, si apre d'un tratto la possibilità di ritornare nella propria Regione senza dover abdicare, come spesso accade, alle proprie ambizioni professionali. Per molti questa possibilità ha un valore incommensurabile. «Prima che professionisti siamo tutti persone» dice Idone con semplicità: «Se la persona è più a suo agio, non c'è dubbio che poi il professionista riesca anche meglio nel suo lavoro». Bip ha già gestito finora una trentina di richieste di questo tipo da parte di suoi dipendenti desiderosi di rientrare in terra natìa, con dei periodi di «transizione». Peraltro, queste nuove sedi sono anche pensate per ridurre uno degli aspetti meno positivi del lavoro nel settore della consulenza: e cioè l'alto turn-over. «Nei mercati molto maturi, come Milano e Roma, il tasso di turn-over è naturalmente alto, soprattutto nei giovani alle prime esperienze di lavoro», a cui può capitare, «dopo aver studiato materie di ampio respiro», di sentirsi stretti quando vengono messi a lavorare su progetti «molto focalizzati, verticali». La possibilità di “testare” più ambienti di lavoro è naturalmente legittima, ma le aziende virtuose ci tengono a costruire con i dipendenti collaborazioni durature. «Noi impostiamo le relazioni sempre a lungo termine, non ci interessa avere interinali per coprire degli spike» conferma Alberto Idone. Nelle sedi del sud il turn-over è molto meno marcato, probabilmente perché «le persone sono  più a loro agio; sono in una comfort zone perché vivono dove hanno costruito il loro bagaglio di affetti, di relazioni; e così sono più focalizzate, concentrate. Questo va migliorare tutte le dinamiche del lavoro: per noi sembra essere una scommessa vincente».Per queste sedi del sud, che non possono contare su un grande "indotto" di mercato territoriale, Bip ha ideato una strategia particolare: «Le abbiamo specializzate con dei temi principali. A Palermo, la cyber security. A Bari vogliamo lanciare un centro di eccellenza digitale sull'AI, l'intelligenza artificiale» spiega Idone. Un progetto di ampissimo respiro, perché «l'intelligenza artificiale è un settore dove in questo momento c'è molta ricerca e sviluppo, molte tecnologie sono in fase di sperimentazione; non ci sono ancora molti casi di applicazione pratica, ma stanno emergendo». Secondo il manager «la curva di domanda esploderà dal secondo semestre di quest'anno in avanti». E Bip sarà pronta. Con i suoi trecento professionisti già attivi nel campo dell'AI sparsi in Italia, e con quelli che andranno a costituire il nuovo gruppo di lavoro pugliese.«I clienti più importanti, i "consumatori della consulenza", sono le grandi aziende; e al sud ce ne sono ancora poche rispetto a quante ce ne sono al nord» spiega Alberto Idone: «Con un network solo locale il progetto Sud non sarebbe potuto decollare. È proprio il cambio di paradigma che sostanzialmente svincola la presenza fisica dal luogo del cliente che ci permette di attuarlo».Il cambio di paradigma vuol dire che oggi una persona può lavorare per uno dei clienti più importanti a livello mondiale non dalla sede di Milano, di Roma o di New York, ma da quella di Palermo. E questo grazie alla tecnologia. « È uno dei pochi lati positivi di quella sciagura che è stato il Covid» riflette Idone. E non solo dal punto di vista informatico – «le tecnologie non sono che degli strumenti, alla fine» – ma anche per «le nuove modalità sociali: oggi è più facile impostare le relazioni a distanza, c'è più abitudine». Il che permette a un cliente di accettare che il suo consulente non sia insieme a lui in ufficio, ma altrove. Magari in un'altra città. Magari in Puglia. Magari nell'ufficio di Bari Vecchia con vista sul porto di Bari e sul mar Adriatico: «Una volta sarebbe stato impossibile. È un cambiamento culturale». 

Diritti degli stagisti diversi da Paese a Paese, il compenso è nodo della discordia: l’analisi europea

Sono passati dieci anni – correva l’anno 2014 – dalla pubblicazione della raccomandazione del Consiglio dell’Unione europea per tirocini di qualità negli Stati membri. Un ulteriore elemento per approfondire il tema arriva ora da un report della Corte dei Conti europea presentato pochi giorni fa: “Azioni dell’Ue a sostegno dei tirocini destinati ai giovani”.Il documento, in realtà, non introduce nuovi elementi e non anticipa le azioni prossime venture del Consiglio: è semplicemente un’analisi basata in parte su informazioni di dominio pubblico e in parte su materiale raccolto appositamente o durante precedenti lavori di audit. In pratica una fotografia dello stato dell’arte.L’obiettivo principale è quello di «fornire ai portatori d’interesse e al grande pubblico una fonte di informazioni obiettiva e utile in vista dell’aggiornamento del quadro strategico dell’Ue relativo ai tirocini, al momento in corso», riassume Eva Lindström della Corte dei Conti Europea, responsabile dell’analisi. C’è un messaggio principale che arriva dalla relazione: «Ormai da dieci anni abbiamo una norma priva di efficacia vincolante e possiamo vedere che la maggior parte degli Stati membri non l’ha attuata pienamente», si rammarica Lindström. Il momento è «tempestivo», in quanto il dibattito pubblico sui tirocini “equi” è più che mai attuale: anche per questo Lindström si augura che la relazione venga «presa in considerazione dagli stakeholder».A parte la constatazione che se già gli stati in questi dieci anni avessero attuato la raccomandazione del 2014 pienamente la situazione sarebbe migliore, i punti chiave del documento sono tre: una definizione di tirocinio – che al momento differisce tra i vari Stati membri – e poi una maggiore disponibilità di dati attendibili e un accesso più equo alle opportunità, che non lasci fuori i giovani che arrivano da contesti sociali differenti. «I tirocini sono diventati molto importanti per accedere al mercato del lavoro. Se funzionano bene creano una situazione vantaggiosa per i tirocinanti e per i datori di lavoro. Certo c’è il rischio che alcuni sfruttino gli stagisti per sostituirli ai dipendenti e ci sono forti preoccupazioni anche sulla qualità degli stage offerti» spiega Lindström alla Repubblica degli Stagisti.La Corte dei Conti europea ha utilizzato due fonti principali, i sondaggi Eurobarometro del 2013 e del 2023, confrontandoli, e ha condotto una propria indagine presso le autorità di gestione all’interno dei singoli Stati membri. «I dati sui tirocini non si riflettono bene nelle statistiche ufficiali e oggi non esiste una loro raccolta sistematica. Per esempio, non ci sono informazioni precise sugli importi o sul numero esatto di formatori che beneficiano dei fondi europei» premette Lindström.Sulla base dei dati a disposizione, la Corte dei Conti europea stima che ogni anno ci siano circa 3,7 milioni di giovani europei che intraprendono un tirocinio come prima esperienza nel mondo del lavoro, al di fuori del percorso di studi (ovvero quelli che in Italia chiamiamo extracurriculari), a cui si aggiungono i tirocini nel sistema educativo – i curriculari. «Se dovessimo stimare il numero totale di tirocini nell’intera Unione europea, penso che arriveremmo a circa 13 milioni all’anno, compresi anche i formativi». Almeno 700mila avvengono in Italia, «veramente tanti» osserva Lindström. Che allontana però l’idea secondo la quale ridurre il numero degli stage potrebbe aumentarne la qualità: «Non vedo perché: non c’è una quantità definita per cui più tirocini hai, meno qualità ottieni. È una responsabilità dei datori di lavoro, certamente, ma anche del legislatore». Tornando al documento, Lindström si sofferma sul raffronto tra il rapporto Eurobarometro 2023 e quello del 2013: nel più recente si nota come «lo svolgimento di tirocini di qualsiasi tipo è diventato molto più frequente. Quindi aumentano i numeri, ma non esiste una definizione chiara di cosa sia uno stage, con 16 membri su 27 che non hanno una definizione giuridica del tirocinio». La raccomandazione del 2014 (che peraltro non era vincolante, cioè non prevedeva per gli Stati membri l’obbligo di recepirla ed emettere normative corrispondenti ai principi che vi erano espressi – insomma, era sostanzialmente solo parole) non chiariva, poi, se e a quali condizioni i tirocinanti potessero o dovessero essere considerati lavoratori. Una questione invece «importante da affrontare: c’è competenza dell’Unione europea nella politica sociale rispetto alle condizioni di lavoro dei lavoratori, quindi se i tirocinanti fossero considerati tali, sarebbero protetti dalla legislazione europea». In pratica, osserva Lindström, sul tema tirocini c’è confusione, addirittura per alcuni Paesi non è contemplata una definizione giuridica del tirocinante. Le raccomandazioni del Consiglio dell’Ue stabiliscono poi una sorta di requisito minimo per tirocini “di buona qualità”, ma solo una minoranza di Stati membri ha allineato il proprio quadro giuridico alle raccomandazioni. E questo «potrebbe comportare il rischio di sfruttamento dei giovani». E poi c’è una questione chiave, da sempre sostenuta dalla Repubblica degli Stagisti: la sostenibilità economica dello stage. «La questione del compenso è il punto di disaccordo tra le parti interessate quando si parla di tirocini di qualità. Da una parte i sindacati e le organizzazioni giovanili si sono battuti per vietare gli stage gratis» riassume Lindström: «Dall’altra le aziende affermano che il tirocinio è un’esperienza di apprendimento e come tale non è lavoro. Non solo, hanno anche sostenuto che se si dovesse avere l’obbligo di retribuire i tirocinanti, le aziende avrebbero più costi e anche un maggiore onere amministrativo». Svolgere un periodo di stage gratuitamente, però, comporta disparità di opportunità, perché non tutte le famiglie possono sobbarcarsi le spese connesse al mantenimento di un figlio stagista per settimane o addirittura mesi. Il rapporto non ignora questo tema, evidenziando anzi il problema dell’assenza di rimborso spese e il grande disaccordo che c’è sulla tematica, ma non offre indicazioni su cosa fare. Lindström, però, non si sottrae alla domanda se la remunerazione oggi sia un fattore di qualità: «Penso di sì. Ricordiamo però che si tratta sempre di un mercato del lavoro, quindi nessuno è obbligato a fare un tirocinio. Oggi è diventato normale farlo, e questo potrebbe portare alcuni giovani a pensare che sia più o meno necessario avere un certo numero di stage nel curriculum per poter entrare nel mercato del lavoro. Mettendo alcuni di loro in una situazione molto difficile, con la sensazione di essere costretti a fare non solo uno, ma forse due o tre, magari senza rimborso spese, per potere fare poi domanda per un lavoro. Non tutti, però, hanno la disponibilità economica per farli gratuitamente».La responsabile dell’analisi della Corte dei conti europea evidenzia anche che in ben dieci Stati europei non vi è alcun obbligo legale di pagare gli stagisti neppure nel caso dei tirocini nel “mercato libero” (ovvero quelli extracurriculari, non legati all’acquisizione di qualifiche professionali). La raccomandazione del 2014 del Consiglio dell’Unione europea non viene applicata in modo uniforme dai vari Paesi e questo anche perché è una soft law, ovvero una norma priva di efficacia vincolante diretta. «Sono dieci anni che usiamo questa soft law e ancora non è stata implementata da tutti!», sottolinea Lindström, convinta che nella prossima revisione i legislatori dovrebbero partire innanzitutto dalla definizione di tirocinio.In realtà, anche se i politici europei ora dovessero decidere di produrre una nuova raccomandazione, non ci sarebbe comunque di nuovo alcun obbligo per gli Stati membri di applicarla. «La questione su cui si sta concentrando ora il legislatore è se sia sufficiente produrre una nuova soft law o se si dovrebbero compiere ulteriori passi verso una sorta di testo più vincolante». Produrre una nuova raccomandazione, infatti, significherebbe ancora lasciare su base volontaria dei singoli Paesi la scelta di applicarla. Perché l’istruzione, aggiunge un senior auditor della Corte, «è di competenza degli Stati. Il ruolo dell’Unione è quello di sostenere e integrare, non può fare molto altro».Il testo sui tirocini pubblicato pochi giorni fa dalla Corte serve quindi per esaminare le informazioni sul tema di dibattito e fornire un’analisi che dia sufficienti notizie a politici e parti interessate sullo stato attuale della situazione.Per capire l’applicazione della precedente raccomandazione del Consiglio, del 2014, bisogna approfondire i dati della relazione. Nelle legislazioni nazionali c’è, di solito, un buon grado di attuazione dei tirocini collegati alle politiche attive del mercato del lavoro (Paml) e un grado minore per quelli del libero mercato, totalmente vietati in Francia. Gli unici Paesi in cui i principi di qualità del 2014 nei tirocini Paml sono attuati pienamente sono l’Austria e il Belgio. Quelli in cui sono attuati parzialmente sono, invece, Danimarca, Paesi Bassi, Germania, Lettonia, Estonia, Repubblica Ceca, Ungheria, Croazia, Slovenia, Grecia e Malta. Negli altri i principi di qualità del 2014 sono stati in gran parte applicati. Diversa la situazione per i tirocini nel libero mercato, ovvero secondo l'analisi della Corte quella parte di stage extracurriculari che non sono collegati a politiche attive nel lavoro ma guidati da un accordo tra tirocinante e datore di lavoro, poco comuni in Italia, Slovacchia, Estonia, Finlandia e Svezia; vietati in Francia e Lettonia; attuati parzialmente in Irlanda, Paesi Bassi, Germania, Polonia, Repubblica Ceca, Austria, Ungheria, Croazia e Grecia; e attuati in gran parte solo in Spagna, Belgio, Slovenia, Romania, Bulgaria e Lituania.A rendere difficoltosa la comprensione di questi dati è la modalità di categorizzazione dei tirocini, molto diversa da quella usata in Italia – dove i tirocini extracurricolari sono, appunto, 320mila all'anno, quindi non pochi. In sostanza la Corte dei Conti europea distingue innanzitutto due macrocategorie, stage formativi e  stage “nel mercato del lavoro”, che sono quello che noi chiamiamo curricolari ed extracurricolari. Ma poi ciascuna di queste macrocategorie è a sua volta scomposta in altre due aree. I curricolari vengono suddivisi in un primo segmento, quello dei tirocini “collegati a programmi di istruzione”, e in un secondo segmento di tirocini “professionali obbligatori”. Gli extracurricolari invece possono essere “legati alle politiche attive per il mercato del lavoro” oppure quelli “nel libero mercato”. Questi ultimi sono i meno regolamentati, non legati a qualifiche riconosciute, e in pratica dipendono da un singolo accordo tra il datore di lavoro e il tirocinante, e sono infatti indicati come "poco comuni" in Italia. Adesso sta ai legislatori farsi carico delle decisioni politiche per cambiare il quadro di qualità dei tirocini e introdurre i giusti elementi per vederne l’applicazione omogenea sul territorio. Qualcosa si muove: la scorsa settimana c’è stato un nuovo dibattito in Parlamento europeo con la Commissione europea in cui sono state rimarcate le richieste arrivate lo scorso anno dal Parlamento per norme chiare su durata e compenso dei tirocini oltre all’accesso alla protezione sociale. Tutto tace però sul fronte del nuovo testo del Consiglio, di cui al momento non circola nemmeno una bozza. Marianna LeporeFoto in alto a destra: ECA copyrightFoto di apertura: da Freepik in licenza gratuita

Smartworking dall’estero, una rarità: in EY adesso si può grazie alla “job portability”

Quando si parla di smartworking, viene naturale dare per scontato che si possa lavorare da remoto da qualsiasi posto: casa propria, un bar, il parco, la casa al mare…  ammesso che ci sia una buona connessione internet, beninteso. Non è proprio così. Si può, ma rimanendo nei confini del proprio Paese. Questa poco conosciuta limitazione territoriale diventa ovviamente un ostacolo se una persona ha necessità o voglia di stare all’estero per un periodo, senza per questo sospendere la sua attività lavorativa. E non si tratta solo di una peculiarità tutta italiana dovuta alla rigidità della nostra burocrazia e del nostro diritto del lavoro: in nessun Paese (almeno tra quelli europei) lo smartworking è libero dalla connotazione territoriale. EY, società di consulenza che da molti anni fa parte del network di aziende virtuose della Repubblica degli Stagisti, ha deciso di fare un passo avanti, lanciando un progetto all’avanguardia che ha dato ai suoi dipendenti la possibilità di lavorare – ovviamente con pc e cellulare – dall’estero: nel corso del 2023, già in cento in Italia e duemila in Europa hanno potuto usufruire di questa chance.L’idea è partita a gennaio 2022 con una prova pilota della sede tedesca di EY. Un successo che ha ispirato i manager della sede italiana: «Sulla base dell’esperimento fatto dai colleghi tedeschi» racconta alla Repubblica degli Stagisti Francesca Giraudo, Talent Leader di EY, «l’Italia si è fatta portabandiera di questa iniziativa e ha guidato un progetto che ha visto l’implementazione della policy per poter lavorare dall’estero».Ottenere il risultato non è stato facile, in primis perché «parlare di smart working fuori dall’Italia è un’operazione molto complicata sotto il profilo giuridico, fiscale, assicurativo» osserva Giraudo: «Ci sono una molteplicità di regole di compliance da seguire e in quanto società di revisione avevamo bisogno di essere inappuntabili. Per questo siamo orgogliosissimi di essere riusciti a portare a casa il risultato». Al momento per i dipendenti italiani è possibile lavorare in smart working dall’estero per un massimo di venti giorni lavorativi, che quindi, includendo i fine settimana, arrivano praticamente a un mese. «Non escludiamo un possibile allungamento» anticipa la manager, «ma in questa prima fase abbiamo preferito fermarci a questo punto per verificare sia l’appeal dell’iniziativa sia eventuali azioni di assestamento». Ma tutto finora è filato liscissimo.Perché prevedere una limitazione nel numero di giorni di smart working dall’estero a disposizione? Perché ci sono specifiche normative che regolano la possibilità per le persone di lavorare in uno Stato in cui non sono residenti. Il limite massimo per poter sostare in un paese prima di essere considerati fiscalmente residenti è di 183 giorni. «Il limite è posto a tutela del massimo rispetto delle normative fiscali e previdenziali vigenti nei Paesi interessati, e degli accordi internazionali sottoscritti. Noi abbiamo iniziato a concedere i primi venti giorni di job portability anche per vedere come reagivano i dipendenti, se approfittavano dell’opportunità e come. E nel caso il progetto avesse funzionato, valutare se estenderlo ulteriormente. I più evoluti nel panorama delle sedi EY europee», spiega Giraudo, al momento «sono i tedeschi che hanno ben sessanta giorni all’anno di smart working dall’estero e stanno valutando di estenderlo a cento». Non solo, «anche l’Olanda sta passando dagli attuali venti a quaranta giorni». Circa 2mila persone di EY in tutta Europa hanno già potuto sfruttare questa opportunità. «È stata un’operazione molto innovativa che ha necessitato il coinvolgimento di vari esperti in materia internazionale» sottolinea Giraudo: «Abbiamo buttato il cuore oltre l’ostacolo e consentito a tutti i dipendenti un’esperienza che a nostro avviso dà flessibilità e che si basa sulla fiducia nel rapporto di lavoro».Ma perché per la legge italiana lo smart working da uno stato estero presenta delle difficoltà? «Perché tutta la disciplina in relazione allo smart working è nata con un implicito riferimento al territorio nazionale, in assenza di un vero e proprio coordinamento tra normative internazionali. Consideriamo anche che è il risultato di un nuovo modo di lavorare non espressamente previsto nelle normative di riferimento internazionali, proprio perché rappresentativo di un nuovo fenomeno», spiega Giraudo: «Esiste un principio giuridico per cui hai una sede di lavoro, il tuo ufficio. Lo smart working, o lavoro agile, è la modalità che ha consentito, sin dal 2017 e in presenza di determinati requisiti, di poter svolgere la prestazione lavorativa in parte presso i locali interni e in parte all’esterno senza una postazione fissa. Il tutto nel rispetto delle norme poste a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro nonché della riservatezza dei dati trattati nell’esecuzione dell’attività lavorativa. Esistono quindi diversi punti di attenzione per motivi giuridici e giuslavoristici, assicurativi e fiscali. Il problema è stato proprio quello di affrontare la frammentazione normativa nei vari Paesi e le difficoltà che alcuni avevano nel concedere questa modalità al di fuori dei confini nazionali. Per questo siamo partiti in quasi tutti i Paesi ma, poi prevedendo alcune eccezioni, come la Svizzera: lì i nostri dipendenti non possono lavorare in smart working».Per capire perché sia tanto complicato lavorare dalla propria casa all’estero piuttosto che dal proprio appartamento in una qualsiasi città italiana bisogna risalire alle norme sul lavoro agile, che sono state pensate sulla base del principio di territorialità. «Lo smart working all’estero ovviamente ha una serie di regole che abbiamo dovuto attivare soprattutto per garantire la compliance fiscale e previdenziale tramite un tool che ci consente di verificare a priori e attraverso un processo di approvazione le richieste dei nostri dipendenti che, su loro richiesta e per esigenza personale, manifestano la necessità di poter lavorare dall’estero per un periodo di tempo determinato e definito a priori».Oggi grazie alle policy approvate nei singoli Paesi i dipendenti EY di Italia, Germania, Austria, Belgio, Portogallo, Olanda, Francia, possono lavorare dall’estero in determinati paesi. La situazione è un po’ disomogenea perché non sempre c’è una reciprocità perfetta: in alcuni casi possono venire colleghi stranieri da un dato Paese a fare job portability in Italia, ma gli italiani non possono, ancora, andare in quel dato Paese, e altre volte il contrario.EY ha dovuto compiere un lungo e intricato percorso, «con il supporto di team dedicati confrontandosi anche con le autorità quando necessario», racconta Giraudo. «Non potevamo lasciare lo sviluppo della questione al caso: tutto questo deve valere per 36mila persone in Europa, e andava fatto bene». Dopo la Germania, apripista a gennaio 2022, e l’Austria a fine 2022, la formalizzazione dello smart working dall’estero è arrivata in Italia a febbraio del 2023.Oggi sono ventinove i Paesi in cui EY ha uffici e da cui è possibile questa modalità di lavoro, in pratica tutta l’Unione europea con l’aggiunta della Gran Bretagna. Il management di EY vede questo progetto come un connubio di «flessibilità e responsabilità», intendendo con questo «responsabilizzare le persone. Far capire che non devono essere in ufficio perché si sta in ufficio. Bisogna invece chiedersi: qual è il posto giusto per fare questo lavoro, farlo al meglio e stare bene nel farlo?», osserva Giraudo, sottolineando come EY si impegni da sempre perché le persone che fanno parte dell’organizzazione «possano scegliere il meglio per sé e per i clienti. Per dare ai nostri talenti un ambiente quanto più inclusivo e accogliente possibile e far sentire tutti “al posto giusto e al momento giusto”». Marianna Lepore